Ieri al Mapei Stadium di Reggio Emilia si è svolta la prima partita di Serie A arbitrata da una donna, Maria Sole Ferrieri Caputi. Si è trattato, sicuramente, di un momento storico per il calcio italiano e tutte le principali testate giornalistiche hanno riportato la notizia.
Era del tutto prevedibile, quindi, che il dibattito pubblico tornasse ad occuparsi della questione di genere. In questo post cerchiamo di fare chiarezza sulle sue implicazioni linguistiche in modo da evitare errori e gaffe.
Arbitra o arbitro?
Ne avevo già parlato 7 anni fa: l’Accademia della Crusca da tempo raccomanda l’opportunità di usare il genere grammaticale femminile per indicare ruoli istituzionali e professioni per cui l’accesso è diventato possibile per le donne soltanto negli ultimi decenni. Arbitra, poi, è anche presente nei vocabolari (addirittura la nuova edizione del vocabolario Treccani inserisce prima il femminile e poi il maschile di alcune parole che terminano rispettivamente in -a e -o, proprio per rispettare il criterio dell’ordine alfabetico). In base a queste indicazione, quindi, il femminile di arbitro è senza dubbio arbitra.
Perché può sembrare cacofonico
Se ti sembra che “suoni male”, è soltanto una questione di abitudine. Storicamente, infatti, alcune professioni sono state appannaggio esclusivo degli uomini, per cui il nostro orecchio è abituato a sentire termini come avvocato, chirurgo, pastore, fabbro, ecc. e meno, invece, termini come avvocata, chirurga, pastora, fabbra. Non facciamo, invece, nessuna fatica con le parole commessa, cassiera, maestra, infermiera, ostetrica, bidella, cuoca, proprio perché si tratta di professioni che in passato erano svolte in maggioranza da donne (o comunque anche da donne).
D’altronde, oggi ci risulta più naturale il termine sindaca, che invece prima dell’elezione di diverse donne come Raggi o Appendino ci sembrava quasi un sacrilegio.
Il linguaggio si adatta alla realtà
Non si tratta, quindi, di una moda passeggera, nè di una scelta arbitraria. Semplicemente la nostra lingua cerca di descrivere la realtà e lo fa utilizzando le sue regole, le stesse che abbiamo impariamo alle elementari: i nomi che al maschile terminano in –o formano il femminile con la desinenza in –a. Per questo, secondo me, non ha senso chiedere ai diretti interessati cosa preferiscono e comprendo Ferrieri Caputi che, interpellata sulla preferenza tra arbitra o arbitro, ha risposto: “decidete voi”. Sono i giornalisti, i linguisti, i professionisti della lingua e della comunicazione che devono sapere come si forma il maschile e il femminile delle parole, non è una preferenza!
Approfondimenti
Se vuoi approfondire, ti consiglio questo articolo di Valigia Blu sulla questione dei nomi delle professioni al femminile e l’opuscolo “Donne, grammatica e media – Suggerimenti per l’uso dell’italiano”, realizzato dal gruppo GiULia (acronimo di: GIornaliste Unite LIbere Autonome) con il patrocinio di INPGI, FNSI e degli Ordini dei Giornalisti del Lazio e della Lombardia.